The Milano master-class (sound and transcript)

12. Il paesaggio come narrazione

#lesson3 #landscape

Ho sempre avuto questa convinzione che il paesaggio in fondo è una narrazione. Dovremmo discutere tanto sulla questione etimologica.
Paesaggio è una parola che è stata inventata - intorno al 1500 - “paysage”, è una parola francese che è stata poi tradotta in italiano, che ha a che fare con il latino, e significa: mettere al centro della visione il paese e sullo sfondo la natura. Il dipinto rinascimentale classico: c'è la Madonna, c'è la città e dietro c'è la natura.

In inglese l'origine etimologica è differente. Viene addirittura dall’antico olandese “landshaft” che significa: ciò che sta sopra il territorio, cioè la “piattaforma” (di cui parlava prima Gianluca). Questo è molto interessante. Osservando le due differenti etimologie usate per definire ciò che persiste in un luogo - che potrebbero essere animali, persone, piante - si capisce che il modo di guardare il mondo per i latini - e quindi italiani, francesi, spagnoli eccetera - da un lato e quello anglosassone dall’altro, non sono uguali.

Concettualmente, e semplificando, il mondo anglosassone è più economicista. Cioè ragiona sull'economia del territorio, su ciò che persiste su un territorio. Noi “latini” raccontiamo ciò che vediamo. Infatti noi abbiamo inventato anche il termine “pittoresco”. Cos'è una cosa pittoresca? Un personaggio che si veste in modo stravagante oppure un luogo talmente bello che hai voglia di fotografarlo o di dipingerlo.

L’uso di parole diverse nelle diverse lingue dimostra chiaramente che elaboriamo concetti diversi, che partiamo da pensieri completamente diversi. In più, io sono dell'idea che la realtà esiste se la raccontiamo, esiste solo se viene raccontata. Se non abbiamo le parole per raccontarle, le cose non esistono, non abbiamo le parole per dirle. Quando io dico che la parola paesaggio è stata inventata vuol dire che, prima del 1500, non c'era il concetto di paesaggio. Non è una cosa che sta naturalmente dentro di noi. Naturalmente non esiste niente dentro di noi. Quindi so, è la mia natura anfibia a parlare - sono uno scrittore ma anche un architetto - che la realtà esiste solo se ci viene raccontata.

Un grande sociologo che tutti conosciamo, Max Weber, diceva: “l'uomo è un'animale sospeso fra ragnatele di significati che egli stesso si è tessuto” cioè, l'uomo esiste grazie a quella ragnatela che lo sospende, fatta di significati, di concetti che lui si è creato. Altrimenti vivrebbe nel caos, nel caos esistenziale. Quindi noi siamo animali sociali. Torna il discorso di Gianluca sull'importanza di muoversi in gruppo. Cioè io mi muovo anche da solo, faccio la mia performance, cammino per scoprire la metropoli ma se questa scoperta non viene condivisa è un'occasione persa, perché siamo animali sociali. Non condividere il mondo con chi ci sta a fianco, ci fa sentire esclusi, ci fa sentire alienati. Se torno a casa da solo e vivo nella mia solitudine, a chi do questa ricchezza che ho guadagnato durante il cammino?
Quindi raccontare la realtà non significa semplicemente prendere atto che sia una cosa molto importante, vuol dire scriverla. Sono uno scrittore, per me raccontare vuol dire scrivere. Si può raccontare descrivendo la realtà anche attraverso altri mezzi che non siano le parole: un fotografo è un narratore, un pittore è un narratore. Anche un musicista è un narratore. E anche un architetto è un narratore. C'era un grande architetto italiano che si chiamava Giovanni Michelucci - quello che ha fatto la stazione ferroviaria di Firenze negli anni ‘30 per intenderci - che diceva che “la forma è il modo che ha l'uomo di comunicare tacendo”. L’uomo non ha bisogno sempre di parlare per creare senso, crea delle forme e queste comunicano significati. Questo fanno gli architetti e gli artisti: comunicano facendo Io guardo.

C'è voluto uno scrittore francese per dircelo, nel secolo scorso, Victor Hugo con Notre Dame de Paris. In quel romanzo c'è una descrizione di Parigi vista come come una grande cronaca di pietra. Questo dice Victor Hugo Hugo, a suo modo uno dei padri del restauro architettonico. (al punto che quando studi restauro, studi Victor Hugo, che sembra strana come cosa). Il romanzo generò il recupero della cattedrale di Notre Dame, allora completamente abbandonata e Viollet Le Duc, che era un architetto, partendo dalla suggestione di Victor Hugo, si era ripromesso la ricostruzione della della chiesa. La ricostruzione spesso come nuova narrazione di pura invenzione: la famosa flèche, quella che è bruciata e crollata, era nuova, era stata inventata ex novo da Viollet le Duc.

Allora Hugo dice la città è una cronaca di pietra, è un libro. La città è un libro che può essere letto da chiunque perché noi parliamo la lingua della città, la conosciamo, nessuno ce l'ha insegnata ma a furia di attraversarla, la città, non parliamo che quella lingua. E la Cattedrale è il simbolo massimo, la cattedrale è come la Bibbia che pure il contadino analfabeta legge, è capace di interpretare cosa sta vedendo. Che sia il contadino alfabeta o l'uomo di cultura, quella lingua entrambi la sanno declinare. L'intuizione di Victor Hugo, lo sappiamo ormai, è diventata una disciplina artistica del Novecento, quella che noi chiamiamo psicogeografia. Si tratta di un'intuizione: la città è un sistema di segni da interpretare e soltanto percorrendola a piedi la posso capire, se mi muovo con la macchina non ci riesco.

Un libro di pietra si legge camminando. Mi faccio influenzare dalla città e influenzo la città attraverso il mio sguardo. L’attraverso, decido i miei percorsi, decido le mie modalità, decido di partire da una stazione ferroviaria di Londra e mi muovo come una spirale. Insomma, è una decisione che ho preso io, è il mio modo di leggere la città, il mio modo di costruire il racconto della città. E questa è un'altra cosa fondamentale, necessaria per capire perché noi stiamo camminando. Attraversare la città decidendo la modalità è il modo che noi abbiamo come cittadini di leggere il grande romanzo urbano e di riscrivere ogni volta un racconto. I racconti sono infiniti, nella metropoli non c'è “il” racconto. Il racconto che noi abbiamo deciso ieri, io e Gianluca, è il nostro racconto, è sbagliato o giusto a posteriori, l'abbiamo scoperto bello, come quando tu leggi un libro e dici “ah, mi è piaciuto, mi sono divertito” oppure, “no era noiosissimo, un brutto libro”. Era un brutto libro non vuol dire che la letteratura è brutta ma che quel libro è brutto. Milano è una brutta città o io te l'ho raccontata male? Pensa a come gli stessi milanesi, 30-20 anni fa, ti parlavano di Milano come di una città grigia, noiosa, brutta, scappavano da questa città, perché quello era un periodo storico grigio, noioso, brutto. Oggi è una città molto seduttiva. Cosa è cambiato? Sono cambiate molte cose, è vero, ma è cambiata la percezione, la lettura che facciamo di questa città.

Quindi la psicogeografia, al di là della sua nascita come performance artistica, delle avanguardie, del situazionismo - va bene lo sappiamo già - oggi è soprattutto una tecnica del corpo che indaga lo spazio urbano percorrendolo a piedi. Attraversare un paesaggio fortemente antropizzato come abbiamo fatto ieri mattina. Noi abbiamo scelto di non andare a cercare la natura - anche se giustamente Gianluca ci dice che in realtà era pieno di natura, anche se non ce ne siamo accorti - ma il paesaggio antropizzato, che è quello proprio dalla metropoli, che può far assomigliare certe parti di Colonia, certe parti di Parigi, certe parti di Istanbul, fatto di cavalcavia, ferrovie e tutti quegli elementi infrastrutturali che si assomigliano, parlano una lingua addirittura sovraterritoriale. Che non sono i non-luoghi.

Io non credo ai non-luoghi, i non-luoghi non esistono. Sono luoghi che aspettano una narrazione. Questo è quello che accadde per esempio nel 2009 quando facemmo con Michele Monina il giro delle tangenziali di Milano a piedi. Soltanto camminandoci e raccontandolo abbiamo fatto emergere dei territori, gli abbiamo dato una dignità di esistenza. E quindi è stata un'esperienza fisica, ma anche esperienza emotiva ed estetica, che serve a superare il pregiudizio che abbiamo nei confronti del territorio dei margini.

Quindi restituiamo consapevolezza al paesaggio quotidiano che è un palinsesto. Al pari dei documenti medievali, che venivano scritti e riscritti perché non c'era la carta - e quindi si prendeva la pergamena, veniva cancellate, ci si riscriveva sopra - e alla fine però si riesce lo stesso a leggere in trasparenza quello che c'era scritto prima. Il palinsesto è l’emblema della memoria urbana, che è cosa differente dalla storia urbana. Per esempio, attraversando un luogo si potrebbe trovare la memoria di un passaggio dell'acqua che non c'è più, oppure la memoria visibile nell'orientamento di questa cascina e così via.

Il paesaggio quotidiano è il palinsesto in cui si depositano i nostri sogni, in cui si deposita il nostro immaginario, la storia, i significati di chi lo abitato addirittura 2000 anni fa. In questo momento siamo in un posto dove 2000 anni fa c'erano dei contadini. Tutto questo è un palinsesto che dobbiamo saper leggere e interpretare, guardare il paesaggio mettendoci il nostro vissuto, la nostra vita quotidiana, la nostra storia, che è diversa per ognuno. Il modo in cui Boris guarda il paesaggio non sarà lo stesso di come lo guardo io, eppure stiamo guardando la stessa cosa, la stessa identica cosa. In questo senso il paesaggio è una narrazione. Mi viene quasi da dire che il paesaggio non esiste, cioè è una specie di buco nero. Un po' come certe funzioni matematiche che se tendono a zero o a infinito scompaiono. Cioè ti puoi avvicinare al concetto di paesaggio ma non potrai mai veramente definirlo. Come il cilindro del prestigiatore in cui metti la mano e io tiro fuori un coniglio, lui invece tira fuori un mazzo di fiori. Là dentro c'è il paesaggio ma non si può vedere. Il paesaggio non esiste se non attraverso il racconto che io faccio del paesaggio